Corriere del Ticino – 21.07.2008
Una vita per integrarsi
Joao Kuzulo Da Silva, richiedente l’asilo, si racconta
Il suo nome è Joao Kuzulo Da Silva, ma gli amici lo chiamano «Jano» e in arte si firma «Tryste MC». È angolano ma vive a Chiasso da quand’era bambino. Ha studiato da impiegato di commercio ma fa il magazziniere. Ha solo 22 anni; ma su molti problemi seri ha già le idee molto chiare, pur essendo assolutamente cosciente della complessità del mondo, e ha imparato a esprimerle utilizzando un veicolo che è in grado di raggiungere un vasto pubblico. È lui «l’asilante» dell’omonima canzone che è stata pubblicata quattro mesi fa in una raccolta di brani hip hop autoprodotta da un gruppo di ragazzi che hanno dato vita a un progetto lanciato dal Centro giovani del Comune di Chiasso. Abbiamo chiesto a Joao di raccontarci la sua storia e la sua visione del mondo.
¤ «L’asilante» racconta il lato nascosto della vita di questa categoria di immigrati: quello vissuto sulla loro pelle; dal viaggio della speranza da Paesi poverissimi o martoriati da conflitti all’impatto con la realtà tutt’altro che patinata della loro meta nel ricco Occidente libero. «Una storia che non si pubblica perché non vende» dice la canzone. Cioè fa poca audience, al contrario delle più o meno ricorrenti risse tra richiedenti l’asilo nei centri d’accoglienza e degli episodi di microcriminalità che finiscono nelle aule di tribunale.
Joao, quando e perché sei arrivato in Europa?
«Alla fine degli anni 80 in Angola (ex colonia portoghese in Africa, ndr.) imperversava una guerra civile. Rischiavamo di vedere le nostre vite sconvolte da un minuto all’altro. I miei genitori decisero di fuggire. Partimmo quando avevo solo 3 anni».
Dove andaste?
«Raccogliemmo il denaro che potevamo e acquistammo dei biglietti aerei. I miei ricordi partono dall’arrivo alla stazione di Milano. Non avevamo un alloggio; così per un certo tempo dormimmo sulle panchine di un parco. Il mattino ci mettevamo in fila con i clochard a un gazebo allestito dalla Croce Rossa per avere almeno un pasto».
Eppoi?
«Mio padre trovò il modo di far ospitare mia madre, me e mio fratello appena nato in un ricovero gestito dalle suore. Papà trovò riparo da altri immigrati residenti a Milano. Vi rimanemmo un anno, forse due. Poi decidemmo di tentare di chiedere asilo in Svizzera».
Arrivaste proprio a Chiasso?
«Sì. Giungemmo qui in treno, col terrore di essere respinti subito alla dogana, dove ricordo la paura dei controlli, accentuata, specie in un bambino, dalla presenza dei cani antidroga, e le parole di mio padre per cercare di calmarmi».
Vi stabiliste subito qui?
«In effetti no. Rimanemmo al Centro d’accoglienza di Chiasso solo qualche giorno. Fummo trasferiti in una struttura nella Svizzera francese; quindi, dopo qualche tempo, di nuovo in Ticino, a Morbio Inferiore. Poi la nostra domanda d’asilo fu respinta e, per non essere rispediti in Angola, col rischio di essere perseguitati, tornammo in Italia. Vivemmo per un paio d’anni in Puglia. Ma, quando altri immigrati ci denunciarono alla polizia, decidemmo di provare a richiedere asilo in Svizzera».
E come andò?
«Fummo ospitati nelle strutture d’accoglienza a Paradiso, dove potei frequentare le scuole elementari. Nel frattempo la domanda fu finalmente accolta e mia mamma riuscì a trovare un lavoro regolare in una fabbrica a Mendrisio, dov’è impiegata ormai da quindici anni. Ci stabilimmo a Chiasso, dove feci le medie e la scuola di commercio, diplomandomi. E allora ci fu un nuovo duro impatto, col mondo del lavoro».
Che cosa intendi?
«Mi sono fatto l’idea che, se hai un nome e un aspetto come il mio e, peggio ancora, se sei richiedente l’asilo, un lavoro d’ufficio non lo trovi. Ho presentato centinaia di richieste d’impiego che sono state tutte respinte, mentre miei compagni domiciliati in Ticino che avevano risultati scolastici pari o inferiori ai miei hanno trovato posto in breve tempo. Io non sono mai riuscito a ottenere neppure un colloquio».
Allora che cosa hai fatto?
«Mi sono adattato. Ho pulito le strade per il Comune, ho lavorato in fabbrica, ho fatto il lavapiatti in un ristorante, l’operatore di call center e il venditore porta a porta. Finalmente, un anno fa, ho avuto l’occasione di cimentarmi come magazziniere alla Coop di via Comacini e ora sono responsabile del reparto bibite del negozio. Spero che sia un trampolino di lancio: vorrei frequentare la scuola interna dell’azienda per qualificarmi meglio nel settore».
Qual è stato il lavoro più duro?
«Quando ho fatto il lavapiatti ero trattato come un vero e proprio sguattero. A rimanermi impressa per sempre sarà però anche un’esperienza vissuta quando vendevo collegamenti telefonici porta a porta. Lo facevamo in coppia, con un collega. Un giorno un potenziale cliente, aperta la porta, dice: “Adesso li fate anche lavorare ‘sti negri?”».
E adesso come va?
«Alla Coop non mi sono mai sentito inferiore agli altri o discriminato. È un’azienda in cui, se hai voglia di fare, ti permettono di esprimere le tue capacità. Ora mi sto integrando e mi piacerebbe che i risultati del mio impegno possano essere d’esempio per altri cittadini stranieri».
Ma la discriminazione l’hai toccata con mano. Come la vivi?
«Secondo me ci sono due generi di razzismo: quello “da strada” e quello “da ufficio”. In Ticino, se sei di colore, puoi entrare tranquillamente in un bar e non accade nulla. Se entri in un ufficio o in un negozio, invece, hai subito gli occhi addosso. Succede a causa del comportamento di alcune persone che viene facilmente attribuito a tutta una categoria. La popolazione ticinese, comunque, non tratta male gli stranieri sulla pubblica via. Piuttosto ho notato quanto meno diffidenza già solo a partire dal nome non tipicamente svizzero. A questo punto, trovare lavoro e integrarsi diventa davvero difficile. E non si arriva mai a dare soddisfazione a quel sentimento che hai di dover sempre dimostrare di meritare di poter stare nel paese che ti ospita».
E il razzismo «da strada»?
«È il razzismo “di ritorno”, che si sviluppa tra gli stranieri che si ritrovano emarginati e non riescono a inserirsi nel contesto sociale. Questo tipo di razzismo si manifesta in una tendenza ad attaccar briga che sfocia in risse e altri comportamenti violenti. Succede quando queste persone non hanno la possibilità di lavorare, di confrontarsi con gente di altre culture e di conoscerle. Sviluppano così una frustrazione multipla: per il sogno infranto dell’emigrazione, per lo stato di indigenza e per l’isolamento».
Da che cosa dipende?
«Penso dipenda dalla mentalità della gente, che si deve aprire ancora di più. Sia quella delle persone di qua sia quella degli immigrati. Tutti dobbiamo imparare a dialogare e a non generalizzare. Una grossa parte di responsabilità ce l’hanno anche certe fazioni politiche che stanno costruendo la propria fortuna su un fenomeno che finora si è riusciti a incanalare ma che si rischia di non poter più contenere».
Spiegati meglio.
«Il problema non sono tanto le idee ma i modi in cui vengono espresse. Su alcuni argomenti riguardanti la gestione dell’immigrazione anche la destra ha buone ragioni. Ma gli accenti posti sull’attribuzione di impieghi agli stranieri fomentano l’odio reciproco e il razzismo e scatenano guerre tra poveri. In realtà, gli stranieri non rubano il lavoro ai ticinesi perché nella stragrande maggioranza dei casi fanno lavori che i ticinesi non vogliono fare o non sono disposti a fare per paghe ridotte. Non sono certo gli stessi stranieri a trarne profitto. Ma catalizzare l’attenzione sul tema degli stranieri permette di evitare che la gente rifletta su altri problemi, come i salari troppo bassi, la disoccupazione giovanile e i costi delle casse malati».
Molti ticinesi associano i richiedenti l’asilo, specie di origine africana, a spacciatori di droga.
«Capita a molti. Ma quando arrivi qui non lo fai con l’obiettivo di delinquere. Vuoi solo, finalmente, costruire un futuro per te e per i tuoi famigliari, anche per quelli rimasti a casa; e vorresti integrarti. Il problema è che riuscirci è tutt’altro che facile. Nonostante la voglia di fare, non c’è modo di trovare un lavoro regolare e si rimane ai margini della società. A questo punto s’inserisce il fatto che, in Ticino come altrove, esiste un mercato degli stupefacenti che ha tutto l’interesse a far fare il lavoro sporco a gente disperata. Perché è la disperazione che fa perdere la testa e cadere nell’illegalità. Quando vivi sulla tua pelle la povertà vera o la guerra e vedi che cosa ti potrebbe succedere, impazzisci dal terrore».
Francesco Somaini